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Celebrazione del 25 aprile 2019 a Thiene.


Celebrazione del 25 aprile 2019

Signor Sindaco, autorità civili e militari, rappresentanti delle associazioni d’arma e della Resistenza, delegazioni degli istituti scolastici, cittadini di Thiene,

Siamo riuniti oggi in questa piazza, come in tutte le piazze d’Italia, per commemorare la lotta di Liberazione dal nazifascismo e celebrare i nostri patrioti che, assieme alle forze alleate, contribuirono a sconfiggere la dittatura e a ridarci la libertà.

Questa ricorrenza ha però anche un altro significato, semplice e profondo al tempo stesso: partecipando alle commemorazioni del 25 aprile noi italiani confermiamo la nostra fiducia o, meglio ancora, la nostra fede nei valori che da oltre settant’anni sono alla base della nostra convivenza civile.

I valori della democrazia, della libertà personale e di associazione, il rispetto dei diritti umani, la tolleranza, la solidarietà verso i più deboli, la difesa dello stato di diritto sono gli ideali che, dal 1945, ci permettono, al di là di tutte le differenze, di restare uniti e di costituire una comunità politica.

Perciò il 25 aprile non è e non può essere una celebrazione di parte: da sempre è invece la ricorrenza di tutti coloro che si riconoscono nella democrazia.

Il 25 aprile unisce gli italiani e non li divide.

Così come li ha uniti la Resistenza.

Scriveva Giacomo Noventa, all’indomani della Liberazione, che la Resistenza non era stato “soltanto un uccidere e un morire”, ma era stato anche “un trovarsi insieme, un conversare e un discutere tra persone diverse”, cioè tra persone di diverso orientamento ideale e politico che fino a quel momento si erano magari ignorate, quando non anche combattute, ma che ora – nella Resistenza - si ritrovavano e si univano nella comune lotta. E proprio questo ritrovarsi insieme di forze diverse – e l’ampia alleanza politica che ne derivò - costituì una novità assoluta per il nostro paese, una novità da cui sono poi nate anche la Repubblica e la sua Costituzione.

La celebrazione del 25 aprile assume un significato particolare proprio a Thiene, per il contributo che questa città ha dato alla lotta di Liberazione.

I primi gruppi partigiani cominciarono – qui da noi - a formarsi subito dopo l’8 settembre per iniziativa di Giacomo Chilesotti; nella primavera del ’44 essi si riunirono nella Brigata “Mazzini” fondata presso il Collegio Vescovile. La brigata comprendeva centinaia di giovani e di ex-militari thienesi e del territorio circostante che si impegnarono nel sabotaggio delle installazioni e dei mezzi militari tedeschi, nell’organizzazione della fuga degli ebrei internati nella nostra provincia, nella trasmissione di informazioni agli alleati grazie alla stazione radio della missione Marini-Rocco. I partigiani della Mazzini pagarono queste loro attività con un alto tributo di sangue. Contro di loro vennero attuati diversi rastrellamenti che culminarono negli scontri di Granezza dove erano presenti 42 ragazzi di Thiene, quattro dei quali figurano tra i caduti di quella tragica giornata.

Nella nostra zona operò anche la brigata garibaldina “Mameli” che fu presente soprattutto a Carrè, Chiuppano, Lugo, Zanè e Zugliano.

In tutte queste vicende ebbe un ruolo importante la popolazione civile, senza il cui appoggio i giovani resistenti non avrebbero mai potuto sostenere il confronto con le forze tedesche e fasciste. Come raccontano nelle loro memorie Attilio Crestani, Fulvio Testolin o Flavio Pizzato erano spesso le famiglie contadine ad ospitare in casa partigiani o ebrei fuggitivi, erano gli impiegati comunali che falsificavano le tessere annonarie per garantire il rifornimento dei viveri, erano i negozianti che chiudevano un occhio e consegnavano cibo sottobanco. Attorno ai partigiani esisteva una vasta rete di protezione e di solidarietà garantita dalla popolazione civile: anche questo tipo di collaborazione fu - e va considerata - una forma di Resistenza.

In particolare vorrei sottolineare il ruolo svolto in quei mesi dalle donne nel soccorso e nell’aiuto ai partigiani e nel ruolo chiave di staffette. Molte si impegnarono, ma tra di loro vorrei citare solo la marosticense Pacifica Meneghin (chiamata Zaira) che venne, qui a Thiene, barbaramente torturata dai militi della X MAS. Scampata alle torture e sfuggita ai suoi carcerieri, a Zaira toccò la sorte di essere assieme al comandante Chilesotti nelle sue ultime ore.

Nel nostro territorio collaborarono alla Resistenza anche tanti sacerdoti a cominciare da Mons. Antonio Zannoni e don Giuseppe Danese, il primo rettore e il secondo professore del Collegio vescovile, che non lesinarono mai il loro sostegno ai partigiani della “Mazzini”. Ricordiamo poi, tra i tanti, almeno don Luigi Pascoli - cappellano della Divisione partigiana “Monte Ortigara” - e don Antonio Frigo cha da Arsiero organizzava, assieme a Rinaldo Arnaldi, la fuga degli ebrei in Svizzera.

Resistenti vanno, infine, considerati anche i deportati del thienese, gli IMI o internati militari, che richiusi nei campi di concentramento in Germania rifiutarono in massa l’arruolamento nelle milizie della repubblica sociale esprimendo così la loro opposizione alla dittatura.

La Resistenza assunse, dunque, tante forme diverse e fu animata da tante e molteplici motivazioni, tutte però accomunate dal rifiuto e dalla rivolta morale nei confronti del fascismo e del nazismo. Una rivolta che non è stata solo italiana, ma che ha unito tutti i popoli europei.

La Resistenza fu un grande fatto europeo.

Nella prima metà degli anni Quaranta, nell’Europa occupata dai tedeschi, il rifiuto del nazismo – la più feroce dittatura della storia - generò movimenti resistenziali ovunque: in Francia, come in Jugoslavia, in Polonia, come nell’URSS occupata, in Norvegia, come in Olanda e in Belgio, in Italia come in Grecia.

Veramente possiamo dire che la lotta contro il nazismo ha unito per la prima volta i popoli europei.

E non è un caso che la stessa idea di unità europea sia nata proprio in quegli anni nelle menti di alcuni antifascisti che volevano riparare ai disastri provocati dal nazionalismo, cioè da un’ideologia fondata su un concetto degenerato di nazione, sulla volontà di dominio e sull’esaltazione della guerra come sbocco inevitabile della competizione tra i popoli.

I frutti di tale ideologia sono stati - nell’arco di venticinque anni, cioè fra il 1914 e il ‘39 - due guerre mondiali e 60 milioni di morti.

E’ pensando a queste tragedie che uomini come l’italiano Altiero Spinelli, dal confino di Ventotene, o il francese Jean Monnet, dall’ esilio algerino, cominciarono a proporre l’ “abolizione della divisione politica dell’Europa” e la sua riorganizzazione federale come strumento per garantire la pace.

Quando noi oggi parliamo di Europa pensiamo immediatamente a parametri finanziari da rispettare o a regolamenti da applicare; ma questo è solo il modo con cui si è scelto di unire l’Europa: l’obiettivo vero era ed è quello di mantenere rapporti collaborativi – e quindi la pace - tra popoli che si sono da sempre, incessantemente combattuti. E questo obiettivo è stato raggiunto: grazie all’integrazione politica l’Europa ha conosciuto il più lungo periodo di pace della sua storia. E anche questo può essere considerato un frutto della lotta contro il nazifascismo.

A settantaquattro anni di distanza dalle vicende storiche che condussero alla Liberazione del nostro paese è giusto che gli odi e i rancori di parte vengano superati e dimenticati. E’ giusto rispettare il dolore e le sofferenze di tutti, dei vinti come dei vincitori.

Quello che invece non si può fare è mettere tutti sullo stesso piano e dimenticare la differenza tra chi ha difeso la libertà e chi la voleva schiacciare.

E questo succede più facilmente quando il giudizio storico sul fascismo si confonde e si annacqua.

Credo che del fascismo si possano dire molte cose: che tentò di creare un regime totalitario, che introdusse in Italia la vergogna del razzismo, che fu imperialistico, militarista e aggressivo. Ma soprattutto credo si debba dire che il fascismo fu un movimento politico fondato sulla violenza. Una violenza non dettata dalle circostanze, ma costitutiva del fascismo stesso, persino teorizzata dai suoi capi come strumento di risoluzione dei conflitti. Non a caso don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, sosteneva – già nel 1922 - che “il metodo della violenza è la sostanza” vera del fascismo.

Il fascismo ha conquistato il potere con la ferocia delle sue squadre d’azione, l’ha mantenuto con l’assassinio politico, con il carcere e le condanne a morte degli antifascisti; l’ha difeso fra il ’43 e il ’45 (assieme all’occupante nazista) con il terrorismo delle rappresaglie e delle stragi. Solo in Veneto - nei 600 giorni dell’occupazione tedesca – le vittime della violenza nazifascista furono ben 2316. Si tratta di partigiani caduti in battaglia, di ostaggi fucilati, di vittime dello stragismo nazista.

2316 famiglie venete colpite. Vorrei che si pensasse a loro – alle vittime, ai loro figli e ai loro discendenti – quando si discute di concedere la possibilità di manifestare pubblicamente a forze che si richiamano esplicitamente all’ideologia fascista.

Tutta la storia del fascismo è costellata da episodi di violenza che diventarono più gravi e pesanti nel corso delle tante guerre di aggressione messe in atto dal regime. In Jugoslavia durante la II guerra mondiale, in Libia durante la repressione degli anni Trenta, in Etiopia nel ‘35-‘36 il fascismo ha mostrato in pieno la propria natura violenta. Vorrei ricordare in particolare uno di questi episodi. Desidero farlo perché, pur essendo una vicenda assolutamente certa e documentata, attestata da grandi storici italiani e stranieri, ammessa dagli stessi fascisti, è tuttavia poco conosciuta e addirittura del tutto ignorata da molti dei nostri libri di scuola.

Si tratta del massacro di Addis Abeba. Il 19 febbraio del 1937 vi fu, nel corso di una cerimonia, un attentato contro il vicerè d’Etiopia, Rodolfo Graziani. I fascisti, guidati dal federale Cortese, risposero con una rappresaglia immediata aprendo il fuoco contro i civili - inermi e del tutto estranei all’attentato - presenti alla cerimonia stessa. Ma l’aggressione non si fermò lì: la rappresaglia si estese subito a tutta la città: gruppi armati di camicie nere girarono per le strade di Addis Abeba uccidendo, talvolta a bastonate e persino a badilate, qualunque etiope capitasse sulla loro strada. Lanciavano bombe a mano nelle case. Incendiavano le capanne con la benzina e impedivano agli occupanti di uscirne e mettersi in salvo. L’incredibile mattanza durò tre giorni, provocando dai 3000 ai 6000 morti. Nelle settimane successive l’azione venne completata con il totale sterminio dei monaci del grande monastero copto di Debre Libanos, accusati di avere ospitato per qualche giorno gli autori dell’attentato. In quel caso le vittime furono quasi 500.

Io credo che il fascismo debba essere giudicato dai fatti. E i fatti sono quelli che ho appena esposto.

Di fronte episodi simili frasi come “anche il fascismo ha fatto qualcosa di buono” suonano come incredibili sciocchezze: quando parliamo di fascismo non stiamo parlando di treni che arrivavano in orario o di campi che venivano prosciugati, parliamo di un regime politico fondato sulla violenza.

Ma soprattutto di fronte a questi episodi, che hanno anticipato le atrocità commesse dai nazisti durante la II guerra mondiale, non è sufficiente, non basta dire – come fanno molti – che il “fascismo è storicamente superato”, come se in qualche momento del passato invece non lo fosse stato.

Affermazioni come questa cercano di relativizzare il giudizio sul fascismo: sono un modo per dire che oggi, magari, il fascismo non è più adatto, ma lo è stato in qualche momento della storia e chissà … potrebbe ancora esserlo nel futuro!

Al contrario bisogna, invece, dire che il fascismo non è mai stato accettabile, per la sua natura violenta, in nessuna fase della storia del nostro paese.

Credo che specialmente in un momento come quello odierno, in cui la violenza politica e il terrorismo tornano sulla scena in modo prepotente, sia essenziale la ferma condanna, senza ambiguità o reticenze, di ogni movimento politico – presente o passato - fondato sull’uso della violenza.

Il massacro di Addis Abeba è stato attuato essenzialmente dalle camicie nere della divisione Tevere. Ma alle violenze purtroppo hanno partecipato anche molti militari e persino civili italiani presenti in Etiopia. Il disprezzo della vita altrui, l’esaltazione della forza, l’idea di superiorità razziale avevano, in quegli anni, contagiato e inquinato le menti di tanti italiani. In questo senso possiamo dire che il fascismo è veramente riuscito a tirar fuori il peggio di noi.

Qualcuno ha scritto che il fascismo è stato abile a coltivare le “passioni tristi”, cioè le passioni che deprimono e ci rendono più piccoli come individui e anche come comunità.

Queste passioni sono quelle del risentimento e del rancore propri di chi si sente vittima di complotti da parte oscuri poteri (pensiamo al mito della “vittoria mutilata” usato dai fascisti per conquistare il potere o alla favola del complotto ebraico); ma “passione triste” è anche l’egoismo infantile di chi dice “prima vengo io” e pensa di potersi salvare da solo o addirittura a scapito degli altri (come faceva il nazionalismo con la sua politica espansionistica); e ancora: “passione triste” è la paura e l’odio per tutto ciò che non corrisponde al proprio modello di vita; lo è, infine, l’aggressività violenta come mezzo per abbattere ogni presunto “nemico”.

Ma al prevalere di queste “passioni tristi”, al loro inquinamento morale ci si può opporre, come ha dimostrato – a suo tempo - un giovane thienese, Mariano Bonato, un altro caduto della nostra Resistenza. Mariano era, se vogliamo, una figura “minore”, una semplice staffetta. Era un ragazzo di soli 18 anni, uno studente liceale e per questo fornito di un lasciapassare tedesco che utilizzava per raggiungere i partigiani, portare ordini e informazioni, fare da battistrada nei trasferimenti, portare rifornimenti. La domanda è: perché Mariano fece tutto questo? Che cosa lo spinse? In fin dei conti non era obbligato a impegnarsi, non rischiava l’arruolamento nelle forze della repubblica sociale, poteva restarsene al sicuro a casa propria a pensare all’esame di maturità. Dunque: perché Mariano ha sentito il bisogno di darsi da fare?

Credo che la risposta sia ancora una volta nelle parole di Giacomo Noventa, lo scrittore che citavo all’inizio: egli sosteneva che i partigiani prima di combattere contro il nemico hanno dovuto combattere contro se stessi e vincere quello che era ed è il male profondo del nostro paese e cioè l’indifferenza, il chiamarsi fuori, il pensare solo a se stessi.

L’indifferenza e la rassegnazione sono stati il terreno su cui il fascismo – come tutti i regimi totalitari - riuscì a prosperare. La Resistenza è nata dalla reazione a questo stato di cose: è stata la riconquista (per giovani cresciuti sotto la dittatura) dell’autonomia morale nei confronti del regime, la messa in discussione – di fronte al disastro della guerra - di tutto quello che fino a quel momento avevano creduto vero; è stata una rottura di schemi, un cambiamento radicale di sentimenti; un’assunzione anche personale di responsabilità.

E’ questa nuova consapevolezza che ha spinto un giovane diciottenne come Mariano Bonato a impegnarsi nella Resistenza. Ed è questa consapevolezza, questa coscienza rinnovata che risuona nelle parole – con cui voglio chiudere questo breve discorso - di un volantino che i partigiani della “Mazzini” diffusero a Thiene subito dopo la fondazione della loro brigata: “Siamo – dicevano - unicamente e profondamente italiani; in noi rivive il valore dei padri nostri. Soldati del Grappa, del Pasubio e del Piave: ma animati da uno spirito e da una coscienza che il fascismo non volle e non seppe darci: [una coscienza] che è il frutto di tanti dolori, di tante ingiustizie e delle molte lagrime che voi tutti conoscete con noi, perché è sorta in noi la certezza di un avvenire più bello e di una umanità purificata da tanto sangue, che noi sappiamo e vogliamo rendere migliore”.

Il nocciolo vero della Resistenza è in fondo tutto qui: fu un’assunzione di responsabilità verso la collettività, un impegno di riscatto dallo sfacelo in cui la nazione era stata precipitata.

Che l’impegno assunto da quei giovani settantaquattro anni fa, sia anche il nostro!

Viva la Resistenza, Viva l’Italia.

Thiene, 25 aprile 2019

Daniele Fioravanzo